Tendenze. Se il grande architetto dà di matto. Dalla casa danzante di Praga, all’enorme elefante che domina sulla città di Bangkok... quando il genio scivola nel gusto per l’assurdo.
Le architetture folli non sono una particolarità dei nostri giorni. Per esempio, se il progetto di
Charles Francois Ribart avesse avuto successo quando lo presentò a Parigi nel 1758, oggi al posto
dell’Arco di Trionfo, sugli Champs Elysées dominerebbe il suo gigantesco elefante. Ma il governo
francese lo rifiutò.
La differenza è che in questi ultimi decenni edifici di tal fatta non solo sono progettati, ma anche
costruiti. A Bangkok per esempio campeggia sul profilo della città Tuk Chang, ovvero l’edificio
elefante, innalzato dal proprietario come ringraziamento per la ricchezza che ritiene ottenuta
grazie ai buoni uffici del dio-elefante. A differenza dell’antico progetto francese, che riproduceva
fedelmente la forma del pachiderma, quello della capitale tailandese è un insieme di tre torri (le
zampe e la proboscide) sormontate da un ponte (il corpo), per un totale di venticinque piani: un
elefante squadrato, una versione semplificata di quella che potrebbe comporre un bambino con i
mattoncini di plastica a incastri. Ma c’è a chi piace. Certo, a vederlo lascia perplessi: l’imitazione è
forzata, le dimensioni eccessive. architettura? arte plastica?
Forse né l’uno né l’altro: un gioco. Con la differenza che i bei giochi durano poco, questo invece
resta lì.
Quella dell’imitazione di forme consuete, è una delle tendenze che hanno animato certe
manifestazioni esuberanti dell’architettura contemporanea. Per esempio a Long Island (New York),
c’è un chiosco di fast food in forma di anatra: certamente non un grande progetto, ma è diventato
famoso perch Robert Venturi l’ha preso a modello per argomentare sulla simbolicità della forma
architettonica ai nostri giorni.
Tuttavia non sempre la somiglianza è voluta.
Robert Bruno in 23 anni di lavoro ha costruito a Lubbock in Texas, una casa totalmente in acciaio
(ne ha usato 110 tonnellate) che sembra un maiale seduto sulla sommità di un colle con le zampe
anteriori poggiate sul declivio: ma è la casa del progettista, non una tavola calda di hamburger
suini.
E, passando ad analogie più spinte, a Huinan nella provincia cinese di Anhui, c’è una casa in forma
di pianoforte a mezza coda, con un gigantesco violoncello vitreo poggiato nell’incavo. Mentre il
sudcoreano Sim Jaeduk, fondatore della World Toilet Association, ha costruito vicino a Seul un
edificio il cui disegno ricalca pari pari quello dell’oggetto a cui è dedicata l’associazione stessa.
A volte predomina un intento commemorativo. Per esempio a Branson nel Colorado, l’edificio
soprannominato Believe it or not è spaccato in due da un’enorme crepa, in ricordo del terremoto
che nel 1812 rase al suolo la città: un evento tragico è ricordato attraverso una struttura più che
altro comica. E, ancora a Bangkok, la sede dell’Asian Bank è un enorme robot da fumetto.
In casi così, l’analogia può diventare imbarazzante, perfino fastidiosa: ma è chiaro l’intento
variamente propagandistico. In alte architetture invece l’eccesso lascia perplessi perché si presenta
come puro esibizionismo.
Per esempio l’hotel Sofitel di Tokyo, opera di Kikutake Kiyonori: un edificio a torre che sembra un
enorme albero di Natale stilizzato, o una sovrapposizione di tanti templi tradizionali a pagoda. La
forma non ha alcuna ragion d’essere, né alcun collegamento con la struttura.
Perché nella storia dell’architettura, forma e struttura sono state sempre tutt’uno, finchè la
necessità statica ha ancorato gli edifici a una logica tale per cui, per quanto fosse magniloquente
l’apparenza, restava legata alla finalità intrinseca dell’edificio, che è quella di offrire ricetto a certe
attività, di ospitare chi vi abita. Poi dall’Ottocento in avanti, cemento armato e acciaio hanno
offerto la possibilità di coprire di maschere le strutture, pericolosamente liberando la fantasia dei
progettisti.
È quel che appare nel modo forse più evidente nell’opera di uno dei maestri dell’architettura
contemporanea: Frank Gehry. Questi ha realizzato a Praga la 'casa danzante', soprannominata
Ginger e Fred, per via della movenza che ricorda quella della nota coppia hollywoodiana. Il suo
centro per la robotica del Mit di Boston segue lo stesso principio: facciate variamente torte, profili
che sembrano sul punto di precipitare; è stato definito una festa di robot ubriachi.
Mentre il suo edifico più noto, il Guggenheim di Bilbao, sotto il profilo strutturale è un intrico di
sostegni e tiranti di acciaio che occupano un volume immenso sottratto alle esposizioni, e la forma
esterna non ha nulla a che vedere con l’interno. Ma resta il fatto che è anche il maggior prodigio di
'public relation' mai compiuto da alcuna macchina propagandistica al mondo, e sotto il profilo
scultoreo è ben intrigante, seppure estraneo al contesto: in questo caso la follia raggiunge la
genialità. Ma è un caso raro.
Il centro commerciale di Sopot in Polonia, realizzato nel 2004, è una evidente imitazione dello stile
di Gehry: dilatato, traballante, scomposto come un ammasso casuale di linee. La casualità non
implica genialità. Mentre qua e là si registrano casi di edifici dove è evidente la ricerca
dell’assurdità per l’assurdità. Come nel ristorante Sakasa in Giappone: una casa col tetto a due
falde; solo che poggia sopra uno dei due spioventi, giace sbilenca sulla capocchia come un fungo
colto e gettato sbadatamente a terra.
In una classifica di edifici strampalati stilata da Jakie Craven, critica dell’architettura che opera con
successo in Internet, al primo posto è stato collocato il municipio di Celebration, progettato da
Philip Johnson come un tetto sostenuto da una foresta di alte colonnine: è una presa in giro del
modello di architettura neoclassica, tanto in voga per gli edifici pubblici americani. Al secondo ha
messo il Millennium Dome di Londra, progettato da Richard Rogers come luogo per le celebrazioni
della svolta dell’anno 2000: doveva durare un anno ma è ancora lì. È una specie di enorme
tendone i cui tiranti sono retti da pilastri di acciaio posti a corona, il suo perimetro è di circa un
chilometro e al centro è alto 50 metri: reclinata, la Tour Eiffel potrebbe entrarci supina. Per inciso,
questa fu realizzata, come quello, per un evento singolo, l’esposizione universale di Parigi del
1894, e poi è rimasta come simbolo di Parigi. Ma la Tour è anche un prodigio di ingegneria,
mentre il Dome è soltanto un tozzo, enorme tendone, costoso da smontare. Segue, secondo la
Craven, la vitrea piramide di Pei realizzata per dar luce ai nuovi locali sotterranei del Louvre a
Parigi. Il suo disegno non c’entra nulla con la facciata rinascimentale del noto museo e
l’assemblaggio dei pannelli di vetro con gli anni ha cominciato a far acqua. Ma almeno è
trasparente.
Mentre a Parigi non è trasparente il Grand Arche de la Défense: il cubo di 110 metri di lato che
nella sua apertura centrale potrebbe ospitare Notre Dame. Una specie di monolito forato di
geometrica precisione, come una gigantesca cornice che inquadra il quartiere più moderno della
città, sollevando passione e perplessità. Assurdo secondo alcuni, sublime e mistico per altri. Ma la
sua forma è staticamente sensata.
Forse è più problematica la 'porta d’Europa', come sono chiamate a Madrid le due torri Kio (Kuwait
Investments Office) progettate nel ’96 da Philip Johnson e John Burgee. Alte 114 metri, sono i
primi due grattacieli inclinati al mondo. Inquadrano l’asse viario centrale della città, Paseo de la
Castillana, convergendo verso il suo asse mediano. Le torri hanno sempre dato il senso della
stabilità, queste invece sembrano minacciare di cadere, precariamente attirate l’una verso l’altra.
Anche qui, c’è qualcosa di gratuito che eccede l’edificare e lascia un punto di domanda: fino a che
punto è giusto che l’architettura miri anzitutto a sorprendere, a volte persino a inquietare?
architectureandmadness (c) 2013
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